Maurizio Pistoso, professore di Lingua e Letteratura Persiana all’Università di Bologna, già capo dipartimento di Studi Linguistici e Orientali presso la stessa Università, ha fatto dono al blog “ViviCertosa” di una dotta riflessione su alcuni maestri che contribuirono alla costruzione del complesso monumentale della Certosa di Pavia
Riproduciamo qui, con il suo permesso, questo interessante scritto che segue i percorsi di questi maestri della Certosa nelle loro vite artistiche dalla Certosa di Pavia al Cremlino di Mosca fino alla Torre Sujumbyka a Kazan’.
Dalla Certosa di Pavia alla Torre dei Tartari: percorsi di tipologie e suggestioni architettoniche alla fine del 1400.
1. Il complesso architettonico della Certosa di Pavia, in assoluto uno dei più significativi esempi di architettura religiosa dell’Italia settentrionale, è stato oggetto nel corso dei secoli di alcuni rimaneggiamenti e parziali restauri e aggiunte che ne hanno solo ritoccato la struttura senza tuttavia alterarne la significativa e per certi aspetti unica immagine d’insieme. Su questo edificio esiste una documentazione storica antica e ricca così come ricca è la saggistica scientifica ad essa dedicata dagli studiosi, siano essi architetti che storici dell’arte in senso più propriamente “estetico”.
Nulla quindi da aggiungere alle molte cose già dette e scritte in proposito. Solo una sintesi riassuntiva, utile punto di partenza per quanto seguirà in direzione dell’oriente. L’inizio della costruzione, voluta del Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, avvenne nel 1396 e l’impianto architettonico complessivo arrivò alle dimensioni attuali più di un secolo dopo. Gli ambienti interni della chiesa, le cappelle, le tombe, la ricca statuaria e i dipinti (pale e affreschi) vennero realizzati nel corso di secoli successivi con il contributo e la mano d’opera di decine di maestri.2. Tutto questo è ben noto sia agli studiosi che ai visitatori odierni, pronti ad ammirare questo straordinario complesso artistico sia pure in modo diversamente consapevole. Ma qui ci sembra anche interessante ricordare che almeno uno degli artisti che contribuirono alla costruzione della Certosa ebbe poi la possibilità di trasferirsi e di lavorare con grande successo in un paese all’epoca lontano e per certi aspetti inaccessibile: la Russia, o meglio il Principato di Mosca, visto che di una “Nazione russa” in senso europeo moderno non si può ancora parlare con riferimento al secolo in questione. Si tratta di Pietro Antonio Solari, figlio di Guiniforte, e nipote di Giovanni appartenente dunque a una dinastia di maestri di origine ticinese lombarda di cui tre generazioni furono attive alla “fabbrica” della Certosa.
Pietro Antonio Solari collaborò con Guiniforte (1424-1481) alla costruzione del “chiostro grande”: alla morte del padre ne proseguì variamente l’opera per quasi un decennio. Nel 1490 lo troviamo però già a Mosca, dove sappiamo che progettò e diresse, nel giro di pochi anni (1491-1494), la costruzione di parti delle mura che recingono il Cremlino e realizzò cinque delle 22 possenti torri di avvistamento e difesa della cittadella. In questo non fu il solo italiano attivo a Mosca in quegli anni, ma fu uno dei rappresentanti più apprezzati e attivi di una vera e propria schiera di artisti italiani chiamati a Mosca dal signore di quel periodo, il Gran Principe Ivan III (1462-1505), abile e dispotico personaggio sotto cui la Russia conobbe una prima embrionale forma di unificazione territoriale e politica.

3. Come si spiega però questa specie di “emigrazione” verso la Russia di maestri italiani? Si può affermare con una certa sicurezza documentaria che fu soprattutto conseguenza degli avvenimenti prodottisi alla metà del 1400 in Europa, e dei rapporti tra la chiesa cattolica di Roma e la chiesa ortodossa russa: i due episodi centrali del contesto furono il Concilio di Firenze del 1439, e soprattutto la caduta di Costantinopoli conquistata dagli ottomani (1453).Il Concilio di Firenze che era stato indetto con l’intento sancire una sorta di riconciliazione, o per lo meno di riavvicinamento, tra la chiesa ortodossa e quella cattolica si svolse – auspici i Medici – con una grandiosa e cosmopolita partecipazione di uomini di stato, religiosi, politici, letterati, diplomatici e artisti.
Fu in effetti una straordinaria occasione di incontro cui partecipò anche l’imperatore bizantino con il suo seguito che comprendeva anche il greco di Trebisonda Cardinal Giovanni Bessarione, quasi un demiurgo dell’umanesimo italiano. Di tutto ciò abbiamo una splendida e dettagliata rappresentazione nell’affresco (che del contesto è perfetta sintesi estetica e iconografica) opera di Benozzo Gozzoli (1459) nella cosiddetta “Cappella dei magi” di Palazzo Medici a Firenze.
Se il risultato del Concilio non fu teologicamente rilevante, nonostante un formale ma effimero accordo, l’episodio, che vide il concentrarsi a nella Firenze dell’epoca i rappresentanti di culture diverse in un clima misto di pericoli e di fermenti artistici ebbe riflessi di portata politica e culturale straordinaria per l’Italia, Bisanzio e anche per la Russia. In questo nuovo scenario di mutati rapporti di forze nel mondo cristiano, infatti, furono in molti a scorgere nella nuova e fresca potenza dei Gran Principi di Mosca un importante alleato, a suo modo “occidentale” contro la prepotente avanzata degli ottomani che avevano posto fine al millenario impero bizantino.
La figlia dell’ultimo imperatore Paleologo, la principessa greca Zoe (poi chiamata Sofija) era divenuta nel 1472 la seconda moglie di Ivan III, e negli anni successivi si sarebbe consolidata anche per opera di teologi e influenti personalità religiose come Filofej di Pskov, la celebre immagine – dai tratti apocalittici e messianici propri del cristianesimo ortodosso – di Mosca quale “terza Roma” anche per l’acquisito tramite dinastico. In tutto questo la presenza di artisti occidentali, soprattutto italiani, ma anche greco bizantini, fu sentita come elemento culturalmente necessario a dare a Mosca e ai suoi signori un prestigio e una ricchezza artistica che ne esprimesse visivamente il potere. Se la città di Costantino era caduta in mano agli Ottomani, i Tartari erano invece stati sconfitti, o per lo meno ricacciati a oriente, nelle loro terre attorno alla città di Kazan’ per opera del signore di Mosca, che aveva come fatto proprio l’antico prestigio di Bisanzio.
Una efficace e precoce forma di diffusione della “protorinascenza” italiana, dunque, verso una terra considerata ancora poco nota e difficilmente accessibile, se paragonata alle più vicine aree dell’Ungheria di Mattia Corvino e della Boemia, con le quali i rapporti culturali sono più conosciuti e indagati.
Ancora pochi anni e si assisterà al diffondersi più maturo e avvertibile della “maniera” italiana che fa scuola nelle corti e nelle dimore patrizie europee, e che due secoli più tardi conoscerà una sua ultima grandiosa stagione anche, e di nuovo, in Russia. Ma con questo saremmo già arrivati ai tempi di Pietro il Grande e dei famosi architetti italiani come Rastrelli, Rossi, Trezzini e i molti altri artisti che diedero a Pietroburgo quell’impronta così inconfondibilmente “classica” (non “neoclassica”, ma addirittura “greca”) che tanto colpisce oggi il visitatore di quella città. In genere chi viaggia in Russia è fermamente convinto della profonda differenza, del netto contrasto storico e culturale che permea le sue due citta maggiori, Mosca e San Pietroburgo/Leningrado. Certo, e senza addentrarci in più complesse questioni di sensibilità estetico letteraria, l’impressione è condivisibile anche e soprattutto dal punto di vista monumentale e figurativo: però una forma di vocazione in senso modernistico (e cioè “occidentale”) della Russia non è solo cosa settecentesca, che comincia con Pietro il Grande e la costruzione della sua splendida città di granito, che lo Zar vuole popolata di artisti venuti dall’occidente a insegnare il mestiere ai suoi volonterosi ma ancora arretrati sudditi. No, anche se complessivamente meno nota, c’è già stata questa efficace e significativa stagione artistica e architettonica che risale a Ivan III, ancora alla fine del 1400, che vide tra gli artefici italiani attivi a Mosca anche il Maestro della Certosa Pietro Antonio Solari e l’architetto bolognese Aristotele Fioravanti.
4. A Pietro Antonio Solari gli studiosi sono oggi più o meno concordi (sia pure con qualche dissenso su sfumature e dettagli che non ci interessano qui) ad attribuire come già detto la realizzazione di cinque importanti torri di difesa e guardia, denominate Spasskaja “(Torre) del Salvatore”, Senatskaja “(Torre) del Senato”, Nikol’skaja “(Torre) di Nicola il Santo”, Uglovaja Arsenal’naja “(Torre) angolare dell’Arsenale e Borovickaja “(Torre) di Borovsk”. Oltre a ciò sappiamo che Solari progettò negli stessi anni, assieme al milanese Marco Ruffo, un palazzo all’interno del Cemlino, denominato Granitovaja Palata tradotto con “Palazzo delle Faccette”, costruzione che ricorda il Palazzo dei Diamanti di Ferrara.
Già alcuni anni prima (1475-79) Aristotele Fioravanti altro architetto sforzesco da tempo al servizio di Ivan III aveva costruito la Cattedrale dell’Assunzione, (in russo Uspenskij Sobor), che rappresenta la sua maggiore opera in terra russa e armonizza con eccellente riuscita artistica elementi locali presenti nelle chiese di Vladimir e Pskov con tratti tipicamente italiani.
Fioravanti precedette di parecchi anni Pietro Antonio Solari e gli fu in qualche modo da battistrada nel suo soggiorno e nella sua opera moscovita. Solari morì a Mosca presumibilmente nel 1493 (maggio o forse novembre) mentre le ultime vicende della vita di Fioravanti sono per alcuni versi piuttosto oscure e quasi avvolte nel mistero.Sappiamo da alcuni documenti che nel 1486 era ancora in vita, e morì in Russia, presumibilmente a Mosca, negli ultimi mesi di quell’anno; e che l’ultimo periodo della sua vita fu caratterizzato da vicende controverse e drammatiche. Sappiamo infatti che, poco dopo la conclusione dei lavori alla Cattedrale dell’Assunzione, decise di abbandonare la Russia per fare rientro a Bologna, cosa che Ivan III non gli permise di fare.
Fioravanti tentò una specie di fuga senza successo: dopo essere stato per qualche tempo imprigionato venne liberato ma costretto a vivere per alcuni anni sotto una specie di tutela cosa non gli impedì di partecipare come architetto militare ad alcune spedizioni condotte da Ivan III a Novgorod e a Tver’ contro i Tartari.
5. I Tartari dunque, popolazione musulmana di ceppo uralo altaico di cui abbiamo già sentito parlare e nota per avere nei secoli precedenti portato il confine dei territori da loro dominati ad ovest di Mosca, fino all’Ucraina, alla Polonia e al basso corso del Fiume Don. In occidente (e anche in Russia) il termine designava ai tempi che ci interessano qui il generico complesso di popoli asiatici “turchi” e “mongoli” noti per la loro aggressività e ferocia, e descritti come nemici per eccellenza del mondo cristiano. Interessante a questo proposito ricordare che i diretti interessati si siano chiamati da sempre “tatari”, e non “tartari” senza quella prima “erre” aggiuntiva che viene introdotta a definirli proprio in testi italiani a partire dal 1500; un esempio celebre il cui si parta di “tartari” è il Comentario de le cose de’ Turchi del poligrafo e storico Paolo Giovio stampato a Roma nel 1532: il Tartaro, uno dei fiumi dell’inferno nella mitologia classica evocava un’immagine molto adatta a indicare l’origine demoniaca di queste genti. Il termine ha avuto particolare fortuna nella nostra lingua, dove si è consolidato soppiantando il più esatto “tataro”, che è rimasto invece in russo e altre lingue dell’Europa. Ai tempi di Ivan III e di Aristotele Fioravanti come a quelli di oggi la più importante città dei Tartari di Russia era Kazan’, un centro politico e militare situato a poco più di settecento chilometri ad est di Mosca, in territorio confinante con le vicine terre abitate da altri popoli altaici, come i Bashkiri e Ciuvasci. Anche Kazan’ ha il suo Cremlino, una vera e propria cittadella fortificata all’interno della quale campeggia una poderosa torre a sette piani alta 53 metri e chiamata Sujumbyka. Ora Sujumbyka, (con alcune varianti, in lingua tartara e russa), è nome femminile proprio di una principessa tartara che svariate leggende collegano a questa torre. Sono leggende popolari anche molto diverse tra loro: una la vuole evanescente bellezza con gli occhi a mandorla che rifiuta di andare in sposa allo Zar oppressore e preferisce la morte gettandosi dall’alto della torre; in un altro caso Sujumbika è una specie di Turandot locale, che tiene valorosamente testa ai malvagi conquistatori russi, e che però, diversamente della sua gelida sorella cinese, è alquanto corpulenta e non disdegna la compagnia maschile. Quello che ci interessa qui non sono questi racconti sulla torre ma le circostanze della sua costruzione: si è sempre pensato in proposito a un’opera databile alla fine del 1500 o anche più tardi, da attribuire ad artisti provenienti dalla Russia, magari assistiti da maestranze locali o anche straniere. Fino ad oggi non parremmo disporre di fonti storiche attendibili, in quanto non ci sono menzioni specifiche di questo monumento che in epoche molto più tarde, e la data della sua costruzione è solo vagamente collocabile nel tempo. La struttura di questa torre, un singolare monumento a gradoni su base quadrata con due successivi tamburi ottagonali e una cuspide conica non ha effettivamente veri e propri precisi precedenti o prototipi conosciuti. Ci sono semmai elementi architettonici parziali che possono essere riscontrati in edifici più occidentali che “russi”. Tutto ciò, unito forse a certe suggestioni estetiche suggerite dal recente nazionalismo locale che si muove in polemica con la cultura russa dominante, ha suggerito a Ravil Bukharaev – uno studioso e letterato tartaro da poco scomparso – la per noi interessante ipotesi che la torre tartara sia stata in effetti opera di artisti italiani che, allontanatisi da Mosca, avevano cercato rifugio e protezione in terra tartara. Tutto ciò presupporrebbe una datazione abbastanza antica, all’inizio del 1500, cosa da verificare come da documentare sulla base di dati oggettivi sono anche le circostanze della costruzione.

“Fermo, viandante, solo qui trovi la quiete:
e sui turchini minareti posa
il rondone, terriccio negli artigli.
Le colonne di Roma, dalla
Fronte fiorita, s’addirebbero al deserto,
ma, poco amato dall’arcobaleno,
esso nasconde nella sabbia i salici…
Qui assume la Russia aspetto d’Asia,
dove le genti han curve sopracciglia,
dove il riflesso dei volti è puro e scuro,
ed è odore d’Assiria nelle torri…
Guardia a Kazan’ sta l’ago di Sumbeka,
ed un muro di torri ardimentose
la città circondava e la collina…”
M. P.
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